“Decideremo strada facendo” è la frase che chiude Tre manifesti a Ebbing, Missouri.

Un film importante, non solo bello. La sua importanza deriva dalla scelta di raccontare cose piuttosto difficili da raccontare (la violenza, il dolore, il perdono, il desiderio, la vendetta, la morte, la vita) prendendo le distanze dal riduzionismo.

Se volessi spingere un amico a vedere il film, gli direi questo: ciascuno di noi si trova irretito nel flusso degli accadimenti, in cui s’intrecciano di continuo le conseguenze indesiderate delle buone intenzioni e gli effetti curiosamente desiderabili delle azioni peggiori; all’interno di questa rete, molti di noi semplificano, per non venire soverchiati dall’insostenibile abbondanza del reale. Ma la semplificazione non risolve nulla. Il suo ruolo è quello di tranquillizzare i più deboli, coloro che si accontentano dei luoghi comuni e che, nel dubbio, preferiscono le procedure prestabilite. È probabile che, dopo queste parole, il mio amico resterebbe a casa, ma si perderebbe qualcosa.

Quando decide si mettersi in viaggio contro il potere, nella prima sequenza del film, Mildred Hayes non sa bene dove andrà a finire, eppure sceglie di dare corpo al valore dell’avversione: vota se stessa al movimento, al cambiamento, alle potenzialità contenute nella disubbidienza. Mildred Hayes è un’eroina zainocratica, interessata più all’impegno che al risultato, consapevole che, quest’ultimo, si deve raramente all’ottenimento di un singolo, frequentemente al disegno del caso. L’atto di rivolta di una madre disperata diventa battaglia contro le routine della burocrazia, proprio perché il programma non è raggiungere una meta. Un gesto ribelle che non conduce alla verità ma restituisce valore alla realtà.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri è tante cose, a me è sembrato soprattutto un film sulla complessità. Dopo la proiezione, la complessità fa meno paura, perché la si riconosce per quello che è, la condizione irriducibile e irrimediabile dell’esistenza umana. Irriducibile e irrimediabile è l’attitudine della protagonista (ma anche dello sceriffo suicida), la quale sperimenta il dolore meno accettabile (la perdita di un figlio), sa che non esiste alcun rimedio a questa atrocità eppure si batte per ottenere una compensazione, cui tuttavia riesce a non ridursi. Da spettatori, appena ci mettiamo a fare il tifo affinché la madre ottenga giustizia e l’assassino sia finalmente individuato, osserviamo l’inatteso capovolgimento degli eventi. La compensazione arriva dalla imprevedibile redenzione di un criminale razzista vestito da poliziotto. Non un rimedio né una riduzione, bensì una contingenza, una situazione, qualcosa che emerge dalle relazioni, il paradosso cui è opportuno adattarsi.

Nella sequenza finale, quando Mildred stabilisce che è proprio il caso di proseguire il viaggio in compagnia del cattivo, purificato dal testamento spirituale del collega suicida e dal fuoco delle molotov di una madre agguerrita, comprendiamo il valore della complessità e la puerile comicità delle riduzioni semplicistiche. Non è proprio il caso di cercare un rimedio alla complessità, tento meno è il caso di sforzarsi di ridurla, a meno di non voler rinunciare alla vita.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri offre una nuova massima allo zainocrate: quel che sarà di me, lo stabilirò strada facendo.