Giovanni Liotti se n’è andato poche ore fa. Non l’ho mai incontrato di persona ma gli devo molto. Il suo libro La dimensione interpersonale della coscienza, letto sul finire degli anni Novanta, è stato per me decisivo. Insieme alle riflessioni di Carlo Sini sulle pratiche, le pagine di Liotti hanno tracciato un solco che è subito diventato l’argine più affidabile per ordinare le provenienze e, soprattutto, per incanalare il successivo, disordinatissimo flusso di letture, scritture e azioni che ha infine condotto, provvisoriamente, alla redazione di Zainocrazia.
Più di ogni altra lettura, quel libro mi ha fatto vedere per intero il significato delle parole di Paul Valéry, appena ci sono solo io, non c’è nessuno. Semplicissime parole, che non siamo capaci di prendere sul serio perché il farlo c’impedirebbe d’intestardirci nella ridicola ricerca d’una identità, per cominciare a riconoscere nelle relazioni la fonte di ogni generazione ed esistenza.
Giovanni Liotti mi ha aiutato, naturalmente senza poterlo sapere, a coltivare molti sogni e, nella coltivazione, tenermi alla larga dal crinale più pericoloso, la prepotenza dell’io. “Illusoria – scrive Liotti – resta solo l’impressione della propria autosufficienza rispetto alla matrice di relazioni in cui ogni individuo è immerso. Vivere secondo questa illusione implica l’attribuzione di scarso valore all’intersoggettività e all’empatia e rende dunque insensibili alla ricerca di buone qualità nelle relazioni”.
Quando scompare l’autore di un libro così importante, ci è più facile capire quale misera cosa saremmo senza certe pagine e senza certi scrittori.